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PERCHÈ LAVORIAMO SEMPRE?

PERCHÈ LAVORIAMO SEMPRE DI PIÙ?

Nel 1930, l’economista John Maynard Keynes affermò che il cambiamento tecnologico e il miglioramento della produttività avrebbero portato ad una settimana lavorativa di 15 ore. 

Infatti, il padre della Macroeconomia, nonché uno tra i più influenti economisti del XX secolo, scriveva che nel 2030 la più grande sfida che il mondo avrebbe dovuto affrontare sarebbe stata quella di occupare il proprio tempo libero, lavorando unicamente tre ore al giorno e favorendo, così, il progresso verso una società migliore e libera dal lavoro.

Ma, nonostante i notevoli guadagni di produttività ottenuti negli ultimi decenni, lavoriamo tutt’ora, in media, 40 ore settimanali.

Il ragionamento di Keynes era che, producendo di più in meno tempo, tutti i nostri bisogni sarebbero stati soddisfatti attraverso meno lavoro, liberando più tempo per noi stessi e, quindi, per il tempo libero a disposizione. 

Ora siamo due volte più produttivi di quanto Keynes immaginasse anche e soprattutto grazie alla rivoluzione digitale che ha aumentato esponenzialmente la quantità di lavoro che ogni singolo lavoratore può svolgere. 

Non solo. Un altro evento che ha contribuito all’aumento della produttività e, conseguentemente, delle ore lavorative è la pandemia. Questa, infatti, è stata un fenomeno dirompente per il mercato del lavoro che ha, da un lato, permesso l’aumento della produttività in una molteplicità di settori (in particolar modo nel settore delle Attività finanziarie e assicurative (6,3%), nei Servizi di informazione e comunicazione, nel settore dell’Istruzione, sanità e assistenza sociale (5,7%) e, in misura più contenuta, nelle Costruzioni) ma, dall’altro lato, non ha fatto altro che contribuire all’incremento esponenziale delle ore di lavoro.

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MA PERCHÉ L’ORARIO DI LAVORO RIMANE STAGNANTE?

Questi significativi guadagni di produttività non si traducono in un minor numero di ore di lavoro o in un aumento dei salari. Infatti, l’aumento di produttività non è stato compensato con una riduzione dell’orario lavorativo, bensì con una sempre maggiore richiesta di aumento della produttività stessa. 

Ma non si tratta solo di orari. Anche la natura del lavoro stesso sembra essere cambiata negli ultimi decenni: con lo sviluppo delle nuove tecnologie le persone affermano di lavorare di più, con scadenze più strette e livelli di tensione più elevati.

Uno dei fatti innegabili della vita lavorativa moderna è che soltanto una piccola e fortunata categoria di persone lavora molte ore e guadagna il giusto denaro che merita per i suoi sforzi. La maggior parte dei lavoratori, invece, si ritrova spesso a svolgere la propria attività molte più ore del dovuto, guadagnando meno di quanto dovrebbe.

A livello economico, infatti, i guadagni di produttività sono stati assorbiti, per la maggior parte, dai profitti delle aziende: mentre la crescita dei salari dei dipendenti è rimasta stabile, la retribuzione del CEO è aumentata notevolmente nel corso degli anni, stabilizzandosi solo di recente. 

Tale aumento di produttività, però, non dovrebbe permettere unicamente lo sviluppo aziendale ma dovrebbe essere direttamente collegata alla crescita salariale o alla riduzione dell’orario di lavoro. In caso contrario, i pochi continueranno a beneficiare del lavoro sempre più duro dei molti. 

Inoltre, se lavorare di più non sembra renderci più ricchi, sembra invece farci ammalare di più. 

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IL FENOMENO DELLE GRANDI DIMISSIONI

Secondo uno studio condotto dagli accademici Tom Hunt e Harry Pickard, lavorare duramente e ad alta intensità aumenta la probabilità che le persone dichiarino stress, depressione e burnout.

Conseguenza diretta di questa situazione è il cosiddetto fenomeno delle Grandi dimissioni (Great Resignation) che dal 2021 si sta verificando in tutto il mondo occidentale: le persone si licenziano sempre di più, perché non sono soddisfatte del proprio lavoro. 

Con questo termine si fa quindi riferimento al significativo aumento delle dimissioni, che vede un numero crescente di persone lasciare il loro lavoro. 

Ma quali sono effettivamente le ragioni di questo fenomeno? 

Le cause che portano a questa drastica decisione sono le più svariate: dall’appena citato burnout, alla ricerca di un posto che preservi il benessere psicofisico, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo il work-life balance. 

Ad essere complice dell’innesco di questo meccanismo è stata la pandemia, che ha irrevocabilmente cambiato ciò che le persone si aspettano dal lavoro, rivalutando le loro priorità.

Ma è solo per il denaro che lavoriamo fino a 60 ore a settimana?

Assolutamente no! 

Si è innescato, infatti, un meccanismo economico-sociale che ci porta a lavorare così tanto e duramente: ce ne lamentiamo, vorremmo più tempo per noi stessi, per le nostre famiglie, ma continuiamo comunque a farlo per la competitività, per il denaro e il benessere che ne deriva, per lo status sociale e per una propria identità nella società in cui viviamo.

E quindi ci chiediamo tutti: 

Keynes, non avevi detto che avremmo smesso di lavorare? 

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